Don Chisciotte

“Don Chisciotte”

Dei mulini che si fecero giganti, di Dulcinea che mutò in contadinotta.
Storia di un uomo che, ostinato, volle seguire la sua magnanima impresa

Organico
6 musicisti e un attore: Violino/viella/kemenche Violino/viola/viella Violoncello/soprano Liuto/tiorba/vihuela/chitarra barocca/oud Flauti dolci/gaita/symphonia/percussioni/tarota
Voce recitante

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Proiezioni di quadri e sottotitoli (disponibili anche tradotti nella lingua desiderata)
Presentazione video dello spettacolo. Le riprese sono state effettuate dal vivo durante il concerto che abbiamo tenuto al festival “Di Parola in Musica”:

 

Programma

G.Ph. Telemann: Burlesque de Quixotte, TWV 55,G10. Ouverture
A. Bousnois (?), L’homme armée
J. Desprez, L’homme armée
Millán (L. Milán), Durandarte Durandarte
Anonimo (XV sec.): Mis arreos son las armas
Anonimo (XVI sec.): Pavana “La morte de la ragione”
Anonimo (XV sec.): La gamba
B. Cárceres: La trulla. “Sus sus, no mas dormir”
G.Ph. Telemann: Burlesque de Quixotte. Le réveil de Quichotte
H. Bailly: Yo soy la locura
Magister Rofino: Un Cavalier di Spagna
T. Arbeau: Bransle des chevaulx
Anonimo (XV sec.): Soy rocinante – Aquel caballero madre
Anonimo (XIII sec.): Orientis partibus adventavit asinus
G. Zanetti: La Zoppa
G.Ph. Telemann: Burlesque de Quixotte. Le galop de Rosinante – Celui d’ane de Sanche
Anonimo (trad. sefardita): El Moro de Antequera
Anonimo (XV sec.): Calvi vi calvi calvi Aravi
T. Susato: La mourisque
G.Ph. Telemann: Burlesque de Quixotte, Son attaque des moulins à vent
B. Tromboncino: Ostinato vo seguire
Anonimo (XV sec.): Oy comamos y bebamos
Anonimo (trad. castigliano): Baile de la rosca
Anonimo (XVII sec.): Al villano se la dan
G.Ph. Telemann: Burlesque de Quixotte. Sanche Panse berné
Anonimo (trad. sefardita): Yo se olalla – Por que llorax
G.Ph. Telemann: Burlesque de Quixotte. Ses soupirs amoureux après la Princesse Dulcinée
B. Strozzi: Che si può fare
Diomedes: Dolores mortis
F. Andrieu: Armes. Amours, Dames, Chevalerie
T. Merula: Folle è ben che si crede

Della Mancia in un piccolo villaggio,
Di cui il nome nel obblìo ristagna,
Un mezzo gentiluom vivea da saggio
Tra i semplici piacer della campagna;
E sebbene col modico retaggio
Non avesse, onde far grassa cuccagna,
Come discreto, non ambia far spicco;
Chè chi tien poche voglie è sempre ricco.
Quando però il Dicembre compariva,
Come forier della stagion più ria,
Ei presso il focolar si divertiva
Leggendo libri di Cavalleria:
Bovo d’Antona, Palmerin d’ Oliva,
Paris e Vienna, e tutta la genìa
Di quelle tante romanzesche fole,
Che le strambe inventar teste Spagnuole.

La fantasia di Don Chisciotte si riempì di tutto quel che leggeva nei libri, sia d’incantamenti che di litigi, di battaglie, sfide, ferite, di espressioni amorose, d’innamoramenti.
E a poco a poco s’internò a tal segno

In quelle frascherie, che tutta notte
Nel suo cervello, di farfalle pregno,
Vedea giostre, tornéi, duelli, e lotte:
Così il meschin si tormentò l’ingegno,
Spesso vegliando sulle carte indotte,
Che dié un tuffo nel matto, e volle poi
L’orme calcar de più famosi Eroi.
Io sono la stoltezza,
son l’unica che infondo
piacer, gioia e dolcezza
a tutto quanto il mondo.
Del mio poter è preda
chiunque, poco o molto,
eppur non v’è chi creda
d’essere folle o stolto.
Io sono la Sirena
che con cantar soave
impinge nella rena
Il folle e la sua nave.

Don Chisciotte non volle attendere di più per porre ad effetto il suo divisamento, mettendogli fretta in ciò il danno che – pensava lui – produceva nel mondo il suo ritardo, tante essendo le offese che pensava di cancellare, i torti da raddrizzare, le ingiustizie da riparare, gli abusi da correggere e i debiti da soddisfare. E così […] prima che sorgesse il giorno, uno dei più caldi del mese di Luglio, si armò di tutte le sue armi, montò su Ronzinante, con in capo la mal congeniata celata, imbracciò lo scudo e prese la lancia e per la porta segreta d’un cortile della casa uscì alla campagna, pieno di contentezza e di giubilo, vedendo con quanta facilità aveva dato principio al suo buon desiderio.

Un cavalier di Spagna
cavalca per la via,
dal pe’ d’una montagna,
cantando per amor d’una fantina:
Voltate in quad o bella donzellina
voltate un poco a me per cortesia,
dolce speranza mia
ch’io moro per amor
bella fantina i’ t’ho donato il cor

Con Don Chisciotte partirono anche lo scudiero Sancho, l’asino e Ronzinante.

Ronzinante son, famo [so]
pronipote di Babie [ca]
per peccato di magre [zza]
caddi in mano a don Chiscio [tte];
d’indolenza fui campio [ne]
ma, parola di cava [llo]
non restai mai senza pa [ga]
Imparai da Lazari [glio]
quando, per rubare il vi [no],
volle in prestito la pa [glia]

Don Chisciotte, quale cavaliere errante, non poté che mettersi alla ricerca dei nemici, siano essi i Mori o i Giganti.

Non avean fatte ancor che poche miglia,
Quando Chisciotte a un tratto si fermò,
U’di molini a vento una squadriglia
D’improvviso al suo sguardo si mostrò.
Da stupore compreso e meraviglia
Ei per giganti li raffigurò,
E volto allo scudier, che gli era a lato:
«Ecco, gli disse, che ci arride il fato.
Sancho, Sancho, non vedi quei giganti
Di cento braccia? convien, ch’io gli assaglia;
Per la terra purgar di tai birbanti,
Io lor men vado a presentar battaglia.»

Don Chisciotte finì stroncato da una pala di un mulino e mentre era terra tutto dolorante ascoltava Sancho pregarlo di porre fine a questa assurdità:

«No, disse Sancho, non andate avanti,
Voi prendete a rovescio la medaglia.
Quelli non sono che molini a vento,
Che girando macinano il frumento.»
«Chetati, caro Sancho, rispose don Chisciotte, che le cose della guerra, più che le altre son sottoposte a continua vicenda.»

Ostinato vo’ seguire
la magnanima mia impresa.
Fa mi amor qual voi offesa
s’io dovessi ben morire.
Ostinato vo’ seguire
la magnanima mia impresa.

Camminarono quasi tutto il giorno senza che avvenisse cosa degna di essere raccontata, del che Don Chisciotte si disperava perché avrebbe voluto imbattersi subito con chi provare il valore del suo forte braccio. Ciò che si è potuto trovare negli Annali della Mancia è che si incamminarono tutto quel giorno e che, sul far della notte, il suo ronzino e lui erano spossati e morti di fame; che osservando da per tutto per vedere se mai si scoprisse qualche castello o qualche capanna di pastori dove ricoverarsi o dove potessero provvedere al loro gran bisogno, vide, non lontano dalla strada dove camminava, un’osteria che egli subito credette essere un castello. Anche se pieno di ubriachi festanti.

Sù mangiamo, sù beviamo,
e cantiam oggi ed oziamo,
che domani digiuniamo.
Onoriam San Marte Grasso
prepariamoci all’ingrasso.
C’imbottiam come lo struzzo
fino a far scoppiare il buzzo.
Buona usanza, consigliamo,
che oggi noi ci strafoghiamo
e domani digiuniamo.

Don Chisciotte, di nuovo in forze, volle ripartire subito in cerca d’avventure, sembrandogli che tutto il tempo che indugiava lì fosse un sottrarlo al mondo e a coloro che nel mondo avevano bisogno del suo aiuto. Così si pose a cavallo e, fermo alla porta della locanda, chiamò l’oste che credeva esser castellano per ringraziarlo dell’ospitalità e i favori ricevuti. Quale stupore lo colse quando questi chiese che venisse saldato il conto!

«È osteria questa e non castello? Sono stato finora in errore! Ma io non posso contravvenire alla legge dei cavalieri erranti, che mai pagarono alloggio né altra cosa in osteria.»

E dando di sprone a Ronzinante, Don Chisciotte se la batté dall’osteria senza che nessuno fosse in tempo a fermarlo. Rimase solo Sancho Panza ad affrontar l’oste.

«Se il mio signore non ha da pagare, nemmeno io, di lui scudiero, lo farò.»

Così dicendo, diede di sprone all’asino, ma di scappare allo scudiero non riuscì come al padrone, perché alcuni uomini dell’osteria, gente burlona e sollazzevole, gli si avvicinarono e, fattolo smontare dall’asino, uno di loro andò a prender la coperta del letto dell’oste; vi cacciarono dentro Sancho, ma, alzando gli occhi, videro che il soffitto era un po’ più basso di quanto occorreva per la loro bisogna; decisero per ciò di uscire sul cortile che aveva per suo limite il cielo, e lì, messo Sancho nel bel mezzo della coperta, cominciarono a lanciarlo in alto e a spassarsi con lui.
Uscito dall’Osteria e recuperato l’amico Sancho, Don Chisciotte si dette a credere che altro non gli mancava se non cercare una dama di cui essere innamorato, giacché il cavaliere errante senza innamoramento era come un albero senza foglie né frutto, corpo senz’anima.

Per me Olalia so che ardi
anche se lo taci ancor
che con gli occhi e con gli sguardi
parla il muto dir d’amor.

«In tutta la vita mia non ho mai veduto la incomparabile Dulcinea né mai ho passato le soglie del suo castello; soltanto sono innamorato per la tanta fama che ella ha di bella e saggia. Vai a Toboso, Sancho! Cerca la mia amata e dille che sto aspettando che ella mi dia modo di vederla.»

Sancho fece per andare, ma gli parve una follia dover cercare una donna che né lui né Don Chisciotte avevano mai veduto e decise di cercare un’altra soluzione: il suo padrone era pazzo di una pazzia che il più delle volte prende certe cose per altre e il bianco lo crede nero e il nero bianco, come si vide quando disse che i mulini a vento erano giganti, perciò non sarebbe stato difficile fargli credere che una contadina qualunque fosse la principessa Dulcinea.

Vide in quel mentre passare una contadinotta in groppa a un asino e colse l’occasione.

SANCHO: «Porto buone nuove! Vossignoria non ha da far altro se non spronare Ronzinante e uscire a vedere la signora Dulcinea del Toboso, la quale viene a veder vossignoria! Sproni, signore, e venga. Vedrà avanzare la principessa vestita in gran pompa e tutta ornamenti.»
DON CHISCIOTTE: «Io non vedo, o Sancho, altro che una contadina in groppa a un asino.»
SANCHO: «Signore, non dica così! Si stropicci gli occhi e venga a riverire la signora dei suoi pensieri!»

Don Chisciotte si mise in ginocchio e guardò confuso colei che Sancho chiamava principessa e signora. E poiché non vedeva in lei altro che una ragazza del contado e neanche bella, restava interdetto e smarrito.

«Vedo bene che la sorte, non sazia del mio male, domina tutte le vie da cui possa venire qualche conforto a questa mia povera anima. E tu, Dulcinea, rimedio unico di questo mio afflitto cuore che ti adora! Mi perseguita un maligno incantatore che ha posto un velo dinanzi agli occhi miei, per i quali ha trasformato la tua bellezza e il tuo viso incomparabile in quello di una povera contadina! Voglia tu darmi uno sguardo carezzevole e amoroso, così che tu possa vedere l’umiltà con cui ti adora l’anima mia.»
«All’anima de mi’ nonno! Sì davvero che so nata io per sentì’ fesserie! Lassatemi annà che me farete un piacere.»
Così dicendo la donna se ne andò, e con lei le speranze di Don Chisciotte. La bellezza di Dulcinea avrebbe dovuto illuminare il suo intelletto e rinvigorire il suo cuore, rendendolo unico e senza pari nella saggezza e nel valore. Rimase invece solo, privato dell’amore di una donna e di una ragione per cui combattere. Più volte era stato sconfitto e non si era arreso, poiché un cavaliere affronta le proprie battaglie con coraggio e fiducia, reso valoroso dal vedersi favorito dalla propria dama. Ma ecco che a Don Chisciotte venne a mancare tale favore, e con esso la ragione per continuare.

Che si può fare
le stelle rubelle
non hanno pietà
Che si può fare

s’el cielo non da
un influsso di pace
al mio penare
che si può fare.
Che si può dire
da gl’astri disastri
mi piovano ogn’or;

che si può dire
se il perfido
amor un respiro
mi niega al mio martire
Che si può fare

Un baroccio s’attraversò sulla strada, carico dei più svariati e strani personaggi e figure che si siano mai potuti immaginare. La prima figura che s’offerse agli occhi di don Chisciotte fu quella della Morte; vicino a lei c’era un angelo con grandi ali variopinte, dall’un fianco un imperatore con una corona che pareva d’oro. C’era pure un cavaliere armato di tutto punto e altri personaggi di diverso vestire e di facce diverse.
«Signore, noi siamo comici della compagnia d’Angelo il Cattivo; abbiamo rappresentato in un villaggio che è dietro a quella collina il dramma sacro del Corteggio della Morte.»

I comici ci mettono dinanzi uno specchio dove si vedono nettamente le azioni della vita umana: nulla vi ha di meglio della commedia e dei comici che ci rappresenti ciò che siamo e ciò che dobbiamo essere.

No olvides que es comedia nuestra vida
y teatro de farsa el mundo todo
que muda el aparato por instantes
y que todos en él somos farsantes.

Uno fa il furfante, un altro l’imbroglione, questi il mercante, quegli il soldato, un altro lo scemo furbo e un altro l’innamorato scemo: finita la commedia, spogliatisi dei costumi, i recitanti rimangono tutti uguali. Or bene, lo stesso accade nella commedia della vita di questo mondo, dove taluni fanno gl’imperatori, altri i pontefici; insomma tutte quante le parti che possono introdursi in una commedia: ma arrivati in fondo, la morte toglie via a tutti gli abiti che li distingueva gli uni dagli altri, e tutti uguaglia. Come nel gioco degli scacchi: finché dura la partita, ogni pezzo ha il suo particolare compito; terminato però il gioco, tutti si mescolano fra loro, e vanno a finire in una borsa che è come quando la vita va a finire in tomba.

Poiché le cose umane non sono eterne, né avendo quella di don Chisciotte privilegio dal cielo per fermare il proprio corso, così ne giunse l’ultimo termine quando egli meno se lo pensava.

Le donne, i cavalier, l’arme. gli amori
chierici, musici di Senna e Mosa,
tutti i filosofi e i verseggiatori,
coloro che hanno voce melodiosa
e cantan spesso musica armoniosa
e che hanno a cuore l’arte della musica,
doletevi, piangete! È giusta cosa:
morto è Chisciotte, re della retorica.

 

Epitaffio

Folle è ben che si crede
che per dolci lusinghe amorose
o per fiere minaccie sdegnose
dal bel Idolo mio rittraga il piede.

Cangi pur suo pensiero
ch’il mio cor prigioniero
spera che goda la libertà.
Dica chi vuole, dica chi sa.

Altri per gelosia
spiri pur empie fiamme dal seno
versi pure Megera il veneno
perché rompi al mio ben la fede mia.

Morte il viver mi toglia
mai fia ver che si scioglia
quel caro laccio che preso m’ha.
Dica chi vuole, dica chi sa.